Sono
storie semplici di vita quotidiana, di persone che vivono le loro
problematiche. Raccontate così sembrano delle favole, che si
leggono e poi si ripongono nello scaffale, e si riprendono in mano,
si rileggono, e disvelano il profondo significato.
Sono
storie vere. Ed Elena Rovagnati, con delicatezza, con un fraseggio
leggero, offre una lettura semplice e profonda, comprensiva e non
invasiva, delle storie dei vari protagonisti che sono tra loro
profondamente intrecciate. A volte sono vite invischiate: i
pensieri, gli atteggiamenti, i comportamenti – pur a chilometri di
distanza – si influenzano e sotterraneamente rimbalzano legando tra
loro i vari personaggi.
Storie
vissute, raccontate in seduta, spesso con la drammaticità di
chi ne ha portato per tanto tempo il peso e finalmente si sgrava e lo
affida allo psicologo.
Lo psicologo ascolta, sente, comprende, elabora, rimanda a sé e alla
persona per una vita più serena.
Mi
soffermo sul primo racconto “Dimmi chi sei”.
E’
l’intreccio di quattro vite, tratteggiate con sottile leggerezza e
intensa realtà, che presentano una serie di problematiche,
vissute, pur nella semplicità del quotidiano, come parte del
“romanzo familiare”. Sigmund Freud riteneva che il “romanzo
familiare”, fosse alla radice inconscia di tante narrazioni. Freud
indicava un complesso di fantasie consce e inconsce che le persone
sviluppano in età preadolescenziale, costruendo le proprie storie in
relazione ai propri genitori, come, per esempio, quella di esser
stati adottati o raccattati per strada.
L’aspetto
più significativo dell’intuizione freudiana sta nel riconoscere
che le fantasie non sono patrimonio specifico della patologia, ma
appartengono allo sviluppo psicologico di ciascuno. Rappresentano le
dinamiche interne e certi comportamenti consequenziali della vita
quotidiana proprie delle dinamiche familiari, che vediamo
rappresentate con chiaroscuri nel racconto che stiamo per commentare.
Due
genitori, separati, distanti fisicamente, ma in relazione con
l’attuale strumento della mail, con i loro conflitti personali e
relazionali irrisolti, le ferite di una relazione fallita, e con una
genitorialità da realizzare.
Vi
è una bambina troppo piccola per ricordare il padre prima della sua
partenza.
Niccolò,
il maschietto, ha vissuto l’abbandono dal padre tra i tre e i
quattro anni, e cresce nel mito del padre, un padre prima scomparso – creduto morto - e poi redivivo tramite la mail e il rendiconto remissivo
della madre. Poiché Niccolò chiede di suo padre, la madre prima lo
presenta irraggiungibile, poi lo inventa lontano, lontano,
raggiungibile solo tramite mail. E’ il compromesso che fa con se
stessa di fronte all’insistenza esigente del figlio, perché, se
fosse per lei, di quell’uomo non vorrebbe saperne più nulla. La
negazione della sua esistenza. Ma i legami psicoaffettivi, in
particolare se traumatici, una volta instaurati, non si possono
cancellare. Legano per sempre le persone agli antipodi della terra.
Vi
è una fotografia, che rende vivo e presente il padre, e fa rivivere
nella fantasia del bambino i momenti della tenerezza e della presenza
paterna, prima della sua scomparsa, perché di una scomparsa si
tratta.
Quattro
anni indicano vivacità, movimento, ricerca di relazioni affettive,
di un padre che accoglie e fa giocare, che contiene e dà le regole,
che aiuta la madre a distaccarsi dal figlio, a sciogliere il cordone
ombelicale, ad equilibrare l’affettività con la razionalità. E’
l’esigenza del bambino di avere la presenza della coppia maschio e
femmina per la sua identificazione attraverso la differenziazione, il
distacco, e l’elaborazione dell’identità psicosessuale.
Il
figlio si confronta, si rispecchia, si riconosce nell’identità
del padre.
E’
ciò che avviene per Niccolò. La sua storia, dai quattro anni sino
alla preadolescenza, è caratterizzata da una costante ricerca del
padre sino a che raggiunge l’obiettivo, al di là di ogni speranza,
e, per certi aspetti, contro l’atteggiamento ambivalente della
madre.
Una
donna, che nello snodarsi del racconto, lentamente disvela la sua
profonda realtà, le sue speranze, i suoi desideri, le sue
conflittualità, le sue contraddizioni di donna/madre, che, sola,
affronta la crescita e l’educazione dei figli con una volontà
decisa, ma con una fragilità relazionale che incide profondamente su
Niccolò, che cresce nell’ideale di un padre da incontrare, ma con
un costante contatto con una madre a cui deve tutto, ogni giorno.
Questa ricerca del padre è
sintetizzata dall’Autrice in “conoscere il padre per conoscere
meglio se stesso”. Sono le radici che, con la loro linfa
costitutiva della vita, costringono come una pulsione irrefrenabile
e incontrollabile la ricerca del padre.
Gilberto Gobbi
DIMMI
CHI SEI VERAMENTE
(e
saprò qualcosa in più di me)
So-chi-sei
Se
n’è andato, quando il maggiore aveva quasi 4 anni. Ancora piccolo, da un
lato, ma già abbastanza grande, per intuire l’ingiustizia profonda
di quel gesto.
Quando
mi chiedeva: «Dov’è papà?» sulle prime rispondevo vaga, poi ho
finito per dire che era andato così lontano e in un posto così
irraggiungibile, che non potevamo aspettarci un suo ritorno.
«È
morto, insomma?» chiedeva, piccino, col mento tremante.
«Sì»,
ho sbottato una volta, esasperata.
In
fin dei conti, è come se fosse morto, no?
Ma
un figlio di 4 anni non digerisce così in fretta la notizia. Avrei
dovuto prevederlo.
Gli
dissi, per consolarlo, che il suo papà sarebbe riuscito ogni tanto a
fargli avere un messaggio, per email.
«Ma
come fa, dal paradiso?»
Paradiso.
In
effetti, probabilmente quel bastardo era in un paradiso naturale e
magari anche fiscale, in quel momento. Io l’avrei visto meglio
all’inferno. Ma a 4 anni si può ancora credere alla versione più
celestiale del Paradiso.
Così,
per sostenere la mia pietosa bugia, mi ero creata un secondo
indirizzo email: ilparadisodibabbo@. Da quello avevo iniziato
a inviare, al mio indirizzo personale, dei messaggi per Niccolò con
le cose che suo padre avrebbe dovuto dirgli. Li inviavo anche a lui
in Ccn.
Dimmi-chi-sono
Lo
sapevo che non era papà. Intuivo che fosse mamma a dare quelle
risposte. Ma era una bugia, una finzione a cui era bello credere…
Comunque, quando a nove anni ne fui praticamente certo, glielo dissi.
Non tanto tempo prima avevo smesso di credere a Babbo Natale.
Lei
mi rispose: «In ogni caso, è quello che avrebbe risposto tuo
padre».
Le
credetti. Credetti anche a questa bugia. Però ero sollevato di non
dover rispondere più.
Non
ho perso l’abitudine, invece, di guardare le foto di papà con me
da piccolo. Cercavo di immaginarmi come poteva essere, mettendo
insieme quanto vedevo nelle foto, con quanto la mamma mi aveva sino
ad allora detto di lui tramite quelle - rare - email.
C’era,
in particolare, una foto che guardavo più spesso delle altre: papà
mi teneva con le sue braccia in alto, sopra la sua testa, quasi, come
un aeroplano. Potevo avere due o tre anni.
Su
quella foto mi sono costruito un sacco di storie, mi immaginavo che
in quel momento lui mi parlasse e dicesse:
«Vola, vola, piccolo mio. Dai, che sei coraggioso, che sei bravo
come il tuo papà!».
Quasi
quasi riuscivo a immaginarmi anche la stretta forte e sicura delle
sue mani, credevo di sentire il loro calore, assieme a quello del suo
sguardo affettuoso nei miei occhi.
So-chi-sei
Doveva
arrivare anche quel momento: il momento che qualcuno, il solito perfido di turno,
ti dice che Babbo Natale non esiste. Nello stesso modo, credo,
Niccolò venne a sapere che ero io a mandargli i messaggi via mail.
Probabilmente avevo sottovalutato le abilità tecnologiche dei
bambini del giorno d’oggi. Oppure quelle deduttive.
In
ogni caso, per me fu una liberazione, non posso negarlo.
Tutto
sommato, sembrava che Niccolò potesse fare a meno del padre, dal
quale, peraltro, non ha preso nulla. Intanto somiglia tutto a me,
fisicamente. Moralmente, poi! Sin da piccolo si è mostrato
assennato, riflessivo, protettivo e responsabile, verso la sorella,
persino verso di me… Naturalmente, ero io che gli raccomandavo di
esserlo, tramite ilparadisodibabbo@, però il risultato ha
superato ogni mia aspettativa!
Ecco,
magari ho esagerato, forse nelle email ho dipinto un padre che
sconfina nella perfezione. Ma così ho ottenuto un figlio quasi
perfetto! Si deve essere identificato con il personaggio dei
messaggi, ma alla fine questo è solo un dettaglio.
Non-sai-chi-sono
Lei
mi inoltrava ogni risposta “paterna” per Ccn. Correttezza? Ma no,
pura perfidia, la sua. Per mostrarmi cosa non avrei saputo dire.
So
benissimo chi è lei veramente. Per questo me ne sono andato. Per gli
altri è sempre stata disponibile, comprensiva, accomodante. Con me,
invece, una scontenta cronica: criticona, acida, tagliente e
spietata.
Inoltre,
si è sempre guardata bene dal mostrarmi cosa mi scriveva il bambino,
nelle email. Mi metteva a conoscenza solo delle risposte che LEI dava
a Niccolò. Da quelle cercavo di intuire quale poteva essere, di
volta in volta, il tema posto da mio figlio.
E
poi, che crudeltà augurarmi ogni volta la morte! Non voleva forse
significare questo, l’indirizzo da cui mi spediva le email,
ilparadisodibabbo@?
Speravo
che quella tortura finisse. Soprattutto non sopportavo il pensiero
che, dopo tutte quelle false frasi sagge, mio figlio avrebbe potuto
persino credere in me… era giusto che non credesse a Babbo Natale,
a 9 anni è giusto.
Infatti,
più o meno in quel periodo i messaggi si interruppero con mio
innegabile sollievo iniziale.
Solo
iniziale, perché non avere più notizie stava diventando un peso
sempre crescente: anche se mi rendevo conto che erano artifici, mi
illudevo di aver instaurato un legame.
Così,
dopo un paio di anni mi decisi di scrivere alla madre, abbozzando la
scusa di un mio nuovo indirizzo email.
Dimmi-chi-sono
Nel
tempo, iniziai a sentire la mancanza. Forse non delle email. Forse di
un padre. Di mio padre.
Ero
appena tornato da scuola, un giorno. La verifica di inglese non era
andata bene, il tema di italiano nemmeno. La mamma non era a casa
(sarebbe tornata dal lavoro solo due ore più tardi, dopo aver preso
mia sorella a danza).
Ho
pensato, in seguito, che l’inizio delle medie fosse stato davvero
traumatico per me, non solo per la fatica in alcune materie: era
proprio un ambiente dove mi sentivo sparire. Innanzitutto, c’erano
più maschi che a casa mia, più che in tutta la mia vita fino a quel
momento!
Li
spiavo, ogni tanto, i miei compagni maschi, chiedendomi se questo o
quell’altro comportamento lo avevano imparato dal loro papà. Io,
dal canto mio, cercavo forsennatamente di aggrapparmi agli ultimi
ricordi dei miei 4 anni, prima che il papà se ne andasse. Mi veniva
in mente solo quella sera che avevamo giocato all’aereo, quando io
mi lanciavo dal tavolino e lui, seduto sul divano, mi prendeva,
tenendomi in aria con gambe tese e braccia aperte. Quella foto.
Ma
non era una cosa che potevo riprodurre in qualche modo a scuola,
questo ricordo non mi serviva poi a un granché.
Insomma: quel giorno, non so come, mi ritrovai a cercare nel PC della mamma
tracce di lui.
Dall’inizio
delle medie quello era un altro dei nuovi privilegi (oltre il
cellulare e stare a casa da solo il pomeriggio), ovvero essere entrato in possesso della password del PC.
Per le ricerche, avevo detto alla mamma; per giocare online, in
realtà.
Rintracciai
così un’email nella cartella Spam che diceva laconicamente:
“Questo è il mio nuovo indirizzo mail, se volete contattarmi”.
Il mittente aveva il mio stesso cognome. Io so di portare quello di
papà. Ce l’ha anche mia sorella più piccola. Ma poi, perché dice
volete, seconda persona plurale? A chi si rivolge, se non
solamente a mia mamma? A chi altro? Non c’era nessun altro
indirizzo in quella email. Vado a vedere la data: mesi e mesi prima!
Ma
se fosse stato papà, la mamma me lo avrebbe detto, no? Che papà era
disponibile, che gli avrei potuto
scrivere… Perché non me l’ha detto?
So-chi-sei
Un
venerdì sera ero tornata a casa pensando: “chissà quanto è
felice Niccolò che la sorella è rimasta a dormire dalla sua amica
di danza, così possiamo vedere tranquilli un film che gli piace”.
Inspiegabilmente, lo trovai in lacrime, tutto rannicchiato sul
divano.
Spaventata,
gli chiesi cosa fosse successo. Forse la verifica di inglese? Forse
il tema di italiano?
«Sì!
No!» fu la risposta urlata.
E
poi, di seguito, un fiume inarrestabile di parole, lui, che era stato
fino a quel momento un bambino così dolce…
«In
inglese faccio schifo! Hai capito?! Non ho certo preso da te, che fai
la traduttrice e interprete di mestiere! Allora mi dici da chi ho
preso? Da papà? Forse ho preso da lui pure in italiano, perché vado
male anche in quello!... Ma no, non può essere! Fino a quando abbiamo
ricevuto le sue email sfoggiava un linguaggio da Accademia della
Crusca!»
Queste
ultime due frasi le aveva pronunciate con un sarcasmo inaudito per
lui. Ma certo, due o tre anni prima lui aveva capito che non poteva
essere il suo papà, a scrivere quelle cose così assennate e
forbite… Lo sapevo: il mio stratagemma per consolarlo a quattro
anni, ora che ne aveva quasi dodici, mi si stava presentando in tutto
il suo effetto boomerang!
«Tesoro,
non essere così crudele con la mamma, era a fin di bene…» Cercai
la sua comprensione.
Questa
frase aveva avuto un piccolo effetto su di lui, si era ricomposto un
pochino e poi aveva continuato.
«Mamma
sono grande adesso! Finiamola con i trucchetti per bambini, voglio
sapere di mio padre!»
Povero
piccolo, come faccio a raccontarti chi era davvero tuo padre? Uno che
non c’era mai davvero, un superficiale, perennemente distratto da
cose inutili… Come faccio a dirti quanto mi ha fatto star male
essere lasciata sola, da un giorno all’altro, perché le
responsabilità di una famiglia erano troppo pesanti, per lui? E per
me forse no? Ma hai ragione, te lo devo raccontare!
E
poi si era mai fatto vivo? Latitante! Era inutile farmi sapere che
aveva cambiato indirizzo email, omettendo accuratamente qualsiasi
domanda su di noi, per paura di darmi dei soldi per il nostro
mantenimento!
Non-sai-chi-sono
Naturalmente,
c’era da aspettarselo, non ricevetti risposta a quella email.
Il
momento più fastidioso fu quando provai a pensare a cosa potesse
avergli detto di me. Certo le ho lasciato campo libero. Se mi avesse
dipinto come l’essere più infimo della Terra, non ci sarebbe stato
nessuno a smentirla. Ha fatto terra bruciata: amici, parenti (alla
lontana: quelli poi, li si perde come niente!).
I
miei figli… vivi sono vivi, almeno questo. Non mi terrebbe nascosta
questa notizia, non fosse che per rinfacciarmi il destino tragico a
cui li ho destinati, abbandonandoli.
Dimmi-chi-sono
Le
ho fatto delle domande dirette, non poteva non rispondere. Purtroppo
per me. Ha finito per spiattellarmi tutte le incoerenze, mancanze,
superficialità, difetti macroscopici di quello smidollato inaffidabile che risultava
essere mio padre.
Da
allora, guardando le foto che lo ritraevano, non lo riconoscevo più.
Come far combaciare quelle immagini con quanto la mamma mi aveva
raccontato ora di lui?
Ad
esempio, quando mi ricapitava sottomano la foto del gioco dell’aereo.
Certo, lì papà sembrava sorridente, affettuoso, e io sembravo
adorarlo, divertito.
Ma
se le cose fossero state diverse da quell’istante immortalato? Se,
in realtà, il secondo successivo lui mi avesse scaraventato a terra,
irritato per quel gioco da mocciosi? Se, invece, quello che era
veramente accaduto dopo, fosse stata una solenne sgridata, di non
assillarlo come una cozza, che aveva cose più importanti da fare? Le
ultime rivelazioni della mamma lasciavano aperta ogni ipotesi, anche
le più fosche. Così, con la mia fantasia arrivavo a immaginare che,
all’ultimo dei miei tuffi fiduciosi nella sua presa, lui la mancava
apposta e con ghigno sprezzante commentava:
«Figlio,
impara nella vita a non fidarti mai di nessuno, ma proprio NESSUNO».
Morto,
non era morto. Effettivamente poteva esserci il dubbio... papà era pure figlio unico e per di più orfano, da quando aveva
vent’anni. Certo, nella sfiga, ho capito a chi somiglio… Comunque
alla mia domanda diretta la mamma aveva fortunatamente confermato:
vivo. Da qualche parte sul pianeta, ma irraggiungibile. Erano anni
che non aveva più notizie. E rieccola che mente! Ma non ho avuto
cuore di infierire. L’ho abbracciata, alla fine. In fondo ha
ragione lei: cosa può fare di più di così, una madre sola?
Ma
il pensiero mi è ritornato più volte, da allora: è certamente
vivo. Probabilmente (queste erano le nuove informazioni), un grande
stronzo, indegno di quella santa della mamma. Però indubbiamente
c’è. Esiste. E allora chi è? E cosa vuol dire essere figli di uno
stronzo? Somigliargli? Forse questa cosa potevo usarla, a scuola! Che
grande idea!
So-chi-sei
Insomma
poi quella sera, per consolarlo, guardammo un vecchio cartone di
Braccio di Ferro, che gli piaceva quando era piccolo. Un film un po’
strano. A dir la verità non l’ho mai seguito tutto, nemmeno quella
sera, effettivamente, perché ogni tanto mi assentavo per telefonare.
Ho dovuto raccontare a mia sorella e alle mie amiche separate la
scenata che mi aveva fatto Niccolò.
Per
tornare al film, a un certo punto ho capito che Braccio di Ferro
incontrava suo papà dopo tanti anni. Mannaggia, ma proprio questo
film dovevamo vedere?! E non avrà avuto effetti deleteri sul
bambino?! Poi mi sono tranquillizzata, perché ho capito che Braccio
di Ferro era deluso da suo padre, che lo aveva raggiunto per
dirgliene quattro sul fatto che lo aveva abbandonato. Tra l’altro
Niccolò in quel mentre stava sonnecchiando, certamente non poteva
rimanere traumatizzato da quel cartone.
Tornai
a telefonare, in bagno.
Dimmi-chi-sono
Intanto,
mi ero copiato quell’indirizzo email. Non sul cellulare, la mamma
me lo controlla quotidianamente. Per il mio bene, ovviamente. Me
l’ero copiato su un pezzetto di carta. Che poi avevo bruciato, una
volta inciso sotto il banco, a scuola.
Questa
effettivamente non si era poi rivelata una grande idea, perché un
giorno avevo guardato sotto il banco e la mia incisione non c’era
più!
In
quel momento devo essermi guardato attorno smarrito. Purtroppo la
prof. di inglese interpretò quello smarrimento come se io cercassi
di copiare durante l’ennesima verifica, così mi aveva mandato
fuori dalla classe in punizione. Che disastro! Non potevo trattenere
le lacrime, la bidella pietosa si era avvicinata:
«Mi
scusi, ma dove avete messo il mio banco?» le avevo chiesto,
farfugliando.
Ho
capito dopo che, quando fanno le pulizie, a volte può capitare che i
banchi vengano piazzati in postazioni differenti. La mia compagna di
banco, Martina, aveva aspettato con me che uscissero tutti, anche la
prof., alla campanella dell’intervallo, e mi ha aiutato a guardare
sotto tutti i banchi finché abbiamo trovato il mio.
La
Martina è proprio comprensiva, anche se non è la più bella della
classe, però è una sveglia. Quel giorno mi ha offerto di andare a
casa sua e di scrivere a mio padre da lì, dal computer di sua mamma.
Se volevo.
Ma
non lo sapevo, se lo volevo veramente. Un po’ perché non mi erano
chiare le intenzioni di Martina, si sarebbe vantata di aver avuto a
casa sua uno dei più carini della classe. No, non era giusto
scrivere a mio papà. Cosa avrebbe detto la mamma, se lo avesse
saputo? Si sarebbe sentita tradita.
Non
vorrei mai tradirla. È così buona, mia mamma. Sempre disponibile,
sempre comprensiva.
Ci
ho impiegato un po’ ad accettare l’invito di Martina. Al ritorno
dalle vacanze lei me lo ha riproposto. Adesso, che siamo in terza
media, penso che accetterò.
So-chi-sei
Una
sera mi dice che il giorno dopo va a fare i compiti dalla Martina.
Meno male che si sta organizzando con questa cosa dell’inglese!
Martina è la più brava della classe in quella materia, lo so perché
la mamma era in classe con me alla scuola di interpreti e traduttori.
Sì, in questo caso la figlia assomiglia alla madre. Ma non nella
antipatia, fortunatamente. Così dico:
«Bene!
Però i Meregalli abitano un po’ lontano, come farai?»
Fortuna
che mio figlio sa davvero organizzarsi, ha preso da me. Infatti mi
dice che dopo la scuola andranno da lei coi mezzi, poi dopo cena gli
avrebbe dato un passaggio il dottor Meregalli, che per un impegno
serale sarebbe dovuto passare proprio dalle nostre parti.
Questa
cosa di andare a casa di Martina però non vorrei che prendesse
piede. Non si sa mai, in terza media stanno entrando nella
preadolescenza. Devo preoccuparmi? Parlerò con sua madre, anche se
non muoio dalla voglia. Spero che lei li tenga monitorati.
Non-sai-chi-sono
Dopo
circa un anno mi arriva un’email al nuovo indirizzo, quello che
avevo comunicato. Il mittente non so chi sia, ma per lo stile con cui
è scritta mi fa pensare che sia mio figlio.
Ciao
papà. Essenziale, come me.
Mi
balza il cuore in gola. Penso, chissà che peripezie avrà fatto
per sgusciare dal controllo nazista di sua madre! Sono fiero di
lui. Un secondo pensiero mi assale: e se fosse un tranello?
Non mi stupirebbe più di tanto, vista la malvagità di quella donna.
Per
essere sicuri, aspetto una nuova email prima di rispondere.
Dimmi-chi-sono
Accidenti,
la mamma di Martina non è certo assillante come la mia! Possiamo
stare in camera con la porta chiusa e la musica a palla, basta che ne
usciamo con i compiti fatti. Il problema è che il PC è della madre,
quindi si trova nel suo studio, ma abbiamo approfittato che lei uscisse un attimo per una commissione.
Il PC era già acceso e così siamo entrati nella casella di posta,
ho digitato l’indirizzo che ormai sapevo a memoria… ma già alla
riga dell’Oggetto sono andato in panico. Non solo perché non
avevamo idea di quanto tempo sarebbe stata fuori casa la mamma di
Martina, ma anche perché non sapevo proprio cosa scrivere.
«Che
gli dico? Forse è meglio lasciar perdere. Mi odio, perché faccio
una cosa che la mamma sicuramente disapprova!». Martina invece mi
incoraggiava, tutta divertita…
«Però
mantieni il segreto, giura!» l’ho implorata.
«Giuro.»
mi ha risposto guardandomi negli occhi.
Credo
di aver avuto le vertigini, per un attimo.
Improvvisamente
è suonato il campanello di casa.
«Oddio
la mamma!»
Devo
dire proprio brava, la mamma di Martina: ha capito da sola che doveva
suonare il campanello di casa.
«Calcola
il tempo dell’ascensore, ma devi sbrigarti! Intanto io cerco di
bloccarla sulla porta con una scusa.»
Devo
dire proprio brava anche Martina, a gestire le situazioni di
emergenza.
In
ogni caso scrivo solo “Ciao papà”.
Vabbè,
dai, è sufficiente, che devo dire di più?
So-chi-sei
Sarà
la preadolescenza che arriva galoppando? A scuola Niccolò ora ha un
rendimento altalenante, lo vedo anche pallido, silenzioso, in
tensione. Quando non tace poi mi chiede un sacco di cose sul padre,
vuole vedere foto, filmini… che fatica! Era meglio quando credeva a
Babbo Natale!
Ho
letto recentemente un articolo sulle difese immunitarie basse dei
figli di separati. Decido che gli darò degli integratori, delle
vitamine. Anche il rendimento scolastico a intermittenza, diceva
l’articolo, può essere collegato alla frattura famigliare. Per non
parlare di quell’altro articolo riguardante una ricerca americana, da
terroristi! Praticamente il solo fatto di essere figli di separati è
un punto in più nella scala di misurazione del rischio di sviluppare
malattie da adulti. Cosa avremo, un futuro di code chilometriche
all’Azienda Sanitaria Locale?! Certo non esulto, a sentirmi in
colpa per essere tra le cause di un probabile danno di salute ai miei
due figli… quando non sanno cosa dire, incolpano i genitori! Le
madri, soprattutto! È sempre colpa nostra! Aspetta che telefono alla
mia amica…
Non-sai-chi-sono
Dopo
qualche tempo, mi arriva una nuova email, sempre da quell’indirizzo:
è proprio lui, mio figlio. Ma stavolta è un fiume di parole. Mi
racconta di un film, un cartone di Braccio di Ferro che, dice, ha
guardato sin da quando era piccolo, tutte le volte che si sentiva un
po’ triste. Io non l’ho mai visto. Ma mi sembra strano che sua
madre glielo abbia lasciato vedere. Si vede che se lo guardava da
solo.
Niccolò
dice che Braccio di Ferro è arrabbiato con suo padre, perché lo ha
abbandonato quando era piccolo, però poi verso la fine della storia
si capisce che suo papà se n’è andato via per proteggerlo da una
sventura: andarsene era stato l’unico modo che il padre aveva
trovato per salvare il figlio. E poi concludeva:
“Papà,
io non so se è stato così anche per te. La mamma non me lo dice, ma
io l’ho sempre sperato”.
Gosh.
Dicono così nei cartoni, vero? Forse lo dice Pippo.
Sì,
mi sento come Pippo! Mi viene in mente un cartone anche a me, chissà
quando l’avrò visto, sicuramente tantissimi anni fa: Pippo padre
imbranato. Super imbranato.
E
ora cosa faccio?
Dimmi-chi-sono
Dopo
quella prima email ne ho mandata un’altra, al papà. Non avevo
ricevuto risposta e la Marti diceva che dovevo riprovare: la prima
era troppo stringata e non andava bene, bisognava scrivere qualcosa
in più. Così mi sono messo a pensare e pensare, e poi scrivevo e
poi cancellavo, e poi bruciavo i pezzi scritti e cancellati, perché
la mamma non trovasse tracce. Al massimo solo un po’ di puzza di
bruciato, ma si rimedia subito, aprendo per un po’ la finestra.
Alla
fine ho scritto, raccontando del film di Braccio di Ferro, per sapere
una cosa, mi sarebbe bastato che lui fosse anche solo a metà tra le
due immagini che la mamma mi hai dato di lui…
Martina
ha detto che potevo essere anche più diretto, che potevo chiedergli
semplicemente se mi vuole bene. Avrei dovuto anche chiedergli,
perché, se mi vuole bene, è così irraggiungibile.
Insomma
pure Martina, che vuole da me? Prima mi dice che sono stato troppo
stringato, ora troppo prolisso!
Non-sai-chi-sono
Non
ho risposto a lui, come potevo? Ma dovevo dare un segnale. Era
arrivato il momento: invitarli da me. Qui. Tutti. Così ho scritto
alla madre. Incrociando le dita.
Sto
aspettando la risposta, spero che non ci impieghi altri anni…
So-chi-sei
Ecco
lo sapevo, dovevo aspettarmi anche questa!
Ma
non aveva capito che se non aveva ricevuto risposta a quella email è
perché non avevo nessuna intenzione di rispondergli?! Sai a me che
me ne importa, di conoscere il suo nuovo indirizzo email!
E
dopo più di un anno che ti fa, lo splendido? Mi chiede se può
invitarci questa estate nella sua nuova casa, vicino al mare (dove,
aspetta? Dov’è Fornells? Baleari?), sciorinandomi tutte quelle
baggianate sul suo senso del dovere paterno e che Niccolò è
abbastanza grande per capire e che devo farlo per lui…. E che devo
pure dirlo a Niccolò, dell’invito!
Non
so cosa fare, ma sicuramente lo terrò sulle spine, per un po’.
Invece,
nemmeno una settimana dopo, mi arriva Niccolò con un’aria da
sfida, sventolando una foto.
«Senti
un po’» mi apostrofa, «io voglio andare a trovare papà, hai
capito?».
Certo
che i due sono proprio padre e figlio. Deve essergli scattato una sorta di orologio biologico, per farli attivare entrambi nello stesso
momento su questo tema.
«Senti
un po’ tu, carino» ribatto a tono per prendere tempo, «si può
sapere cos’è questo modo di fare prepotente? Non mi puoi chiedere
più gentilmente quello che vuoi? Io ti ascolto, lo sai, sono la tua
mamma…»
La
tecnica bastone/carota ha sempre funzionato, ma non così bene
stavolta, perché non mi fa nemmeno finire la frase che ribatte:
«E
non dirmi anche adesso che in questo difetto assomiglio a mio padre,
perché sono stufo di sentirmi in colpa di assomigliargli nelle cose
che non vanno di me! Voglio verificare da me, SE e IN COSA gli
assomiglio: la vedi questa foto?» e me la sventola sotto il naso
«Voglio sapere se questo qui della foto è il papà magico che mi
hai raccontato fino ai nove anni, o è il buzzurro della versione che
mi hai propinato da quando hai smesso di scrivermi le email dal
paradisodibabbo!»
Un
colpo.
Mi
sono seduta affranta, lentamente, sulla sedia. Svenire mi sembrava
eccessivo e poco di classe.
«Non
sei giusto, Niccolò» ho detto con un filo di voce e il volto tra le
mani. Ma con le dita un poco distanziate, ho intercettato
«Io
ho fatto così tanto, per te. Non è giusto che mi ripaghi così.
Comunque, se vuoi, questa estate possiamo organizzare e andare a
trovare il tuo papà, non sono certo così crudele da impedirtelo».
«Mamma,
scusami» è venuto vicino prendendomi la mano, vedi che ho ottenuto
l’effetto desiderato! «Ma io voglio sapere chi sono, capisci? E
per questo è importante per me sapere chi è veramente mio papà.
Non ne convieni anche tu?»
Anche
Niccolò sa essere irresistibile, quando usa le parole che gli
insegno!
«Ne
convengo, caro, non posso far altro. Ma per andare a trovarlo, deve
andare bene l’esame di terza media. Deve andare benissimo, capito?
E poi, se rimani deluso, non lamentarti con me».
Dimmi-chi-sono
Le
ho parlato. Mi sono sfogato, ma chissà se ha capito veramente. Però
accetta la proposta di andare da papà. Anzi, lo ha detto lei,
“questa estate”. Ok, dovrò impegnarmi di più a scuola, che ci
vuole? Certo è fissata, perché ricattarmi sempre con la scuola per
qualsiasi cosa le chiedo? Non mi interessa se rimango deluso da papà.
La verità non può farmi star peggio di così. Credo.
Stanotte
ho fatto questo sogno, proprio lontano dalla realtà, eh.
La
mamma e il papà sono in soggiorno - non l’ho mai visto lì,
oppure è un ricordo di bambino? - parlano avvicinandosi, io temo che
si mettano ad urlare o a picchiarsi… ma non ho un ricordo diretto
che l’abbiano mai fatto. Urlare, sì. Se ci fosse stato bisogno di
ricordarmelo, la pettegola maligna della portinaia, una volta, aveva
provveduto. Secondo lei avevo fatto troppo chiasso nel passare sotto
il portone, così me lo ha spiattellato in faccia per umiliarmi:
“certo, con dei genitori che non avevano rispetto per la quiete
degli altri condomini, sempre lì ad urlarsi ad ogni ora del giorno e
della notte… come fai a sapere cos’è il rispetto degli altri,
tu?”
Ecco
di nuovo questa idea che io debba assomigliare per forza, nel bene e
nel male, a uno o a entrambi i genitori. Ma non posso assomigliare
solo a me, qualche volta?
Tornando
al sogno, la mamma e il papà si parlano e si avvicinano. Io non
capisco cosa dicono, mi metto dietro il divano, per sentire meglio.
La mamma chiede scusa (scusa?) al papà per non aver facilitato il
contatto tra padre e figli, che avrebbe rimediato, portandoli da lui
la prossima estate. Il papà, che a sua volta le chiede scusa, dice
che no, non è colpa sua, piuttosto è stato lui a non essersi
sforzato abbastanza, nel cercare quel contatto, e che è stato pigro
e passivo (Ma no! Non dire questo! È la mamma che dice questo di
te!). E la mamma risponde:
«Certo,
però io non ti ho aiutato»
E
lui che ripete:
«Vero,
ma anche io non ti ho aiutato per niente.»
(Ma
no! Non devi ripetere a pappagallo le cose che ti dice mamma!)
Il
sogno finisce che il papà dice:
«Allora
vi aspetto questa estate.»
E
io balzo fuori dal divano e vorrei saltargli in braccio, perché non
voglio aspettare l’estate, non ha senso visto che lui è già qui,
ora, nel nostro salotto…
«Sveglia,
Niccolò!»
È
l’urlo mattutino della mamma. Certo, lo dovevo immaginare che era
un sogno.
A
colazione lei fa pressing:
«Avanti,
veloce! Sei sempre in ritardo per la scuola, come tuo padre… e non
c’è nessuna email sua, nemmeno stamattina!»
Poi
vedo che si morde le labbra. Non lo voleva dire, ma è più forte di
lei.
Questa
è la realtà, quella a cui sono abituato.
Un
po’ mi viene da sorridere. Penso alla Marti, quando la incontrerò
a scuola.
Le
voglio raccontare anche del sogno.
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