Abbiamo
appena festeggiato il passaggio dal vecchio al nuovo anno... volevo
raccontare come li vivo io, questi passaggi: non importa che sia
psicologa,
sono lo stesso (o forse appunto per questo) una mamma
ansiosa.
Mamma
ansiosa figlia di mamma ansiosa, e l’ansia si ferma alla
generazione
precedente la mia, penso: mia nonna non l’ho
conosciuta, ma credo che la fede a quei
tempi aiutasse molto bene a
gestire l’ansia. Ora che abbiamo gli psicologi e i
telefonini,
forse siamo ancora in difficoltà?
Ecco
un esempio su come il telefonino non aiuta (la mamma, pure psicologa)
a gestire
emotivamente il passaggio “dall’abbraccio della mamma
al mondo”.
Durante
le vacanze di Natale i due maschi fanno una vacanza (uno con gli
scout,
l’altro con l’oratorio). Hanno entrambi il telefonino.
Concordiamo che mi manderanno
dei messaggi, a cui posso eventualmente
rispondere, ma non pretendere di avere una
controrisposta.
Sono
brava, mi dico: se dovessi lasciare a briglie sciolte la mia ansia,
pretenderei delle
telefonate e non semplici laconici whatsapp. (Tenete
conto che devo sempre gestire
anche l’ansia della nonna, che a sua
volta mi chiede via whatsapp se i figli mi hanno
inviato i messaggi concordati).
A
proposito della laconicità, Francesco rasenta il ridicolo: il suo
primo messaggio
arriva già due ore dopo che è partito, e io non so se
essere felice o preoccupata.
“Mi ritirano il cell”.
Immediatamente ne arriva un secondo: “lo ritirano a tutti”.
Eh
certo, conosce bene la sua mamma: infatti mi era già partito il
fotone “cosa avrà
fatto per beccarsi subito questa punizione?”.
E uno conclusivo: “ce lo ridanno stasera”.
Alla
sera poi arriva l’ultimo della giornata: “ora è sera, mi
hanno ridato il cell.
Buonanotte”.
Come
faceva mia mamma, che ai tempi della mia adolescenza non esisteva il
cellulare, non lo so. Forse diceva rosari o si distraeva tirando la
casa a lucido.
Io,
in questi momenti di transizione dalla partenza dei figli al loro
ritorno, vivo in
apnea. Me ne accorgo dopo, quando ritornano.
Allora
mi chiedo di che cosa è fatto questo passaggio, per noi mamme.
E poi
arrivo a pensare che è sempre un lasciar andare, uno spingere fuori,
da quando
nascono.
E
tutti i teorici che ho studiato sono lì a sostenere che è per
questo, che ci siamo: per
rifornirli a sufficienza (di amore,
risorse, strategie) perché vadano, e per essere lì
quando
ritornano. Magari ammaccati, o semplicemente raffreddati. (Ad esempio
è
inutile dire al Franci di coprirsi, non gli interessa nulla che
poi io debba curargli la
bronchite, cosa che mi stressa tantissimo).
E
più siamo brave in questo, più siamo una “base sicura”, più
loro potranno inoltrarsi
nel mondo: allora quando vanno io mi dico
“devo essere tutto sommato bravina, se se
ne vanno spensierati ed
entusiasti, no?”.
Questa
è una consolazione per gestire il vuoto. Il vuoto che non possiamo
illuderci di
rendere meno impegnativo grazie al cellulare.
La
definizione “sindrome da nido vuoto” è di solito adottata in
quella fase del ciclo di
vita famigliare in cui i figli abbandonano
la famiglia di origine per crearsene una loro,
o comunque per seguire
e realizzare il proprio progetto di vita.
Forse
queste vacanze-senza-genitori sono piccole prove per prepararsi a quel
momento?
In
una alternanza di vuoti e pieni, anche io mamma opero un passaggio,
direi di
consapevolezza: arrendersi alla realtà non riduce del tutto
l’ansia, ma me la fa
sopportare meglio.
E
così rispondo ai whatsapp dei figli con l’unica cosa che mi sembra
sensata: “ciao tesoro
ti voglio bene”.