domenica 6 settembre 2015

educare è sperare

Le mie riflessioni, in una luminosa e sonnecchiante domenica pomeriggio di fine- estate, vanno sulla scia della mia attuale lettura: "Breviario per i don Chisciotte- taccuino di pedagogia della rivoluzione" della mia stimatissima amica, prof. Chiara Scardicchio.
Sono al capitolo 5, dopo aver fatto una doverosa puntatina al post scriptum, sentendomi autorizzata dall'ormai noto decalogo di Pennac; improvvisamente, una frenesia di raccontare mi fa interrompere la lettura ed eccomi qui.
Perdonate.
Ma questa è la prima conferma: sono compulsivamente portata a sfidare, contemporaneamente, pericolo e ridicolo. Come Chiara Scardicchio riferisce, di don Chisciotte.
Il mio racconto è breve:
quest'ultimo inverno ho seguito, per la seconda "edizione", un gruppo di insegnanti e genitori dell'Istituto Comprensivo della mia città, per il progetto del "patto educativo". Questa edizione, differentemente dalla prima, accoglieva anche docenti della scuola secondaria di primo grado (medie, per intenderci).
Il dibattito con questi ultimi, in particolare, è stato molto serrato: ora mi accorgo che si scontravano due visioni che nel testo di Scardicchio possono essere ricondotte alla psicologia "del saggio" rispetto a quella "del visionario".  Naturalmente, seguendo la lettura di due agguerrite docenti di italiano e matematica, io appartenevo pietosamente alla seconda categoria.
Una delle due ad un certo punto mi apostrofa, esasperata dai miei ripetuti rilanci in una lettura della situazione che apra a possibili interventi promuoventi la relazione educativa e l'alleanza con la famiglia: "Ma lei in che mondo vive?" . Sul suo volto, un ghigno cinico-soddisfatto a chiusura del suo repentino intervento: soddisfatto, perché per accusare il colpo mi ci è voluto un qualche secondo di silenzio in più.
Non rispondo e riprendo con la mia analisi della situazione, finché riesco educatamente a ribaltarle la domanda: "ma in che mondo (senza speranza, sottintendo) vive LEI?". Il suo volto mostra ora spaesamento, spiazzamento. Sembra che esprima l'interrogativo: "ma che c'entra la professione insegnante con la speranza?".
Il volto degli altri presenti, invece, mi sembra segnalare gratitudine: tutti siamo lì grazie a sforzi e sacrifici, quella sera come altre precedentemente, abbiamo faticosamente lasciato a casa marito (o moglie)  e figli, non ci va di ricevere anche l'etichetta di sognatori. Oppure sì, se questo vuol dire sperare irriducibilmente. Non potremmo impegnarci in questo modo, per meno. E non ha a che fare solo con la fede cattolica, come dimostra bene Chiara Scardicchio nel testo: "l'utopia è categoria pedagogica, la lamentazione no."
Non si può educare se non si ha la competenza di sperare, nella sua accezione completa di pensarsi capace di agire per un futuro che realizzi degli obiettivi di senso per la propria umanità e per la comunità in cui si vive. Senza speranza non si dà educazione. Non si è credibili, davanti a dei ragazzi che affacciandosi al futuro ci chiedono da che parte stiamo: e se tradiamo il nostro cinismo, ovvero la nostra personale sconfitta, li potremo tenere solo con le minacce, con le note, con i voti (bassi, ma anche alti).
E' tutta estate che ripenso a quella prof perché sento che ho qualcosa in sospeso con lei: ho deciso che per pacificarmi, le regalerò il libro di Chiara!
breviario per i don chisciotte

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